L’INGRESSO IN CITTÀ DELL’ARCIVESCOVO DI CATANZARO-SQUILLACE, MONSIGNOR CLAUDIO MANIAGO, DALLA “PORTA STRETTA” DEL CENTRO CALABRESE DI SOLIDARIETÀ
Ad accoglierlo con emozione, assieme alla presidente Isolina Mantelli e ai componenti del direttivo, una delegazione di ospiti e operatori
di REDAZIONE
CATANZARO – 10 GENNAIO 2021 – Inizia dalla periferia di Catanzaro l’avventura, come egli stesso l’ha voluta definire, del nuovo arcivescovo della diocesi di Catanzaro-Squillace, monsignor Claudio Maniago che si è insediato oggi, entrando dalla “porta stretta” del Centro Calabrese di solidarietà.
La prima tappa del suo cammino nella diocesi parte da Villa Emilia, nel quartiere di Santa Maria, una delle strutture dell’ente no profit che, dal 1986, opera nel campo del disagio e dell’emarginazione giovanile, attraverso l’accoglienza, il prendersi cura e l’attivazione di azioni di reinserimento di sociale di soggetti svantaggiati quali donne vittime di violenza, tossicodipendenti, alcoldipendenti, giovani disagiati e famiglie.
Ad accoglierlo con emozione, assieme alla presidente Isolina Mantelli e ai componenti del direttivo, una delegazione di ospiti e operatori che sono riusciti a far sentire il calore di tutta la comunità, anche di quella parte che non ha potuto essere presente nel rispetto delle norme di contenimento di diffusione del Covid 19.
Il racconto di quello che è il Centro Calabrese – oltre che nelle parole della presidente Mantelli e nel racconto di Angelo, uno dei ragazzi che sta per lasciare la struttura dopo quattro anni a conclusione del proprio percorso – arriva dai doni preparati per monsignor Maniago: la filosofia del Centro, che tutte le mattine i ragazzi e le ragazze che hanno scelto di “rinascere” da qui, recitano tutti assieme; nei prodotti dell’orto coltivati con le mani, il sudore e la pazienza degli ospiti che rappresentano l’attesa e il lavoro che porta a raccogliere i frutti del percorso, ed infine il pane, sempre prodotto dalla comunità del CCS che rappresenta la “condivisione”.
La prima richiesta che all’arcivescovo Maniago arriva dalla presidente Mantelli è di poterlo chiamare “padre” perché – dice Isa – “è di un padre che abbiamo bisogno. Lei ha scelto una porta stretta, quella della periferia, per entrare in città. E noi accogliamo il valore simbolico e profetico di questa scelta. Abitiamo questa periferia da circa 40 anni, abbiamo accolto circa 3.200 ospiti.
Abbiamo iniziato a occuparci delle famiglie dei tossicodipendenti, della formazione professionale dei ragazzi per un inserimento nel mondo lavorativo, poi abbiamo pensato di fare prevenzione, partendo dagli adolescenti fino ad arrivare alle famiglie.
Adesso abbiamo un centro per la famiglia con un sostegno alla genitorialità, sempre con la voglia di sporcarci le mani, e con l’idea che chi sta in questa stanza abbia bisogno di redenzione. A partire da noi stessi”.
La testimonianza di Angelo commuove e riempie il cuore. “Quando sono arrivato qui, ero distrutto – spiega rivolgendosi al vescovo che lo ascolta con grande coinvolgimento -. Ho incontrato la droga quando ero ragazzino, e per colpa dell’eroina ho perso tante occasioni, anche mentre lavoravo in Svizzera.
Sono arrivato qui per scontare la mia pena, con l’intento di andare via subito. Invece sono rimasto: mi sono affezionato a tutti, agli operatori, perfino ai muri di questo posto dove mi sono sentito protetto e che mi ha aiutato a capire tante cose di me stesso.
Qui mi hanno insegnato a conoscermi, prima c’era solo la droga: ora capisco quando sto male, ho conosciuto i sentimenti che non pensavo di avere”.
Entra dalla porta della “periferia dolente”, monsignor Maniago, cogliendo la luce che attraversa la sofferenza. E nel Centro calabrese di solidarietà si pratica la ricerca della luce nella vita assieme ai ragazzi e alle ragazze che scelgono e lottano per ricominciare.
“Entro da una porta stretta, come dice Isa, non di quelle trionfali ma di quelle vere, le porte che ti portano da una parte all’altra – ha esordito monsignor Maniago – Sono contento di incontrarvi, siamo in frontiera: vengo a mettere la mia forza a disposizione di tutti, qui dove c’è bisogno non solo di una pacca sulla spalla, ma di una vicinanza”.
Parla del Centro Calabrese già al “plurale” definendolo “un luogo temporaneo dove riusciamo a togliere le interferenze del mondo che fanno distrarre dalla propria vita e dalla propria dignità”.
La dignità – ammonisce – “che le cose della vita possono far dimenticare, che può essere ferita, calpestata, ma che nessuno può togliere. E che anche dopo le peggiori esperienze può ravvivarsi e tornare a risplendere: quella nessuna te la può rubare.
Può essere sepolta da macerie e distrazioni, come le sostanze stupefacenti che ti fanno essere altro e ti fanno distrarre, anche dalla dignità. Ma quando entrate qui dentro si ricostruisce e come succede con la brace che sta sotto le ceneri, si ravviva.
Questo è un luogo benedetto perché sa soffiare sulla brace per ravvivare la fiamma. Vi siete impossessati di nuovo della dignità e della bellezza – ha concluso – siatene gelosi per poterla condividere nei rapporti familiari, con nuovi amici, con persone con cui non avere interessi comuni, ma a cui volete bene”.
L’arcivescovo, prima di andare via, ha recitato la filosofia del Centro con i ragazzi, per poi visitare anche la parte esterna della struttura, soffermandosi nella piccola cappella realizzata in legno dagli ospiti, promettendo infine di ritornare presto per una nuova intensa visita.