L’AI NON È UN’OPZIONE: È LA NUOVA SOPRAVVIVENZA PROFESSIONALE (CON VIDEO)
Il futuro del lavoro è già qui e parla il linguaggio degli algoritmi
di REDAZIONE
– PRESERRE (CZ) – 3 FEBBRAIO 2025 – Immaginate il 1995: chi sapeva navigare Internet aveva un vantaggio strategico.
Oggi, nel 2024, la competenza critica non è usare la tecnologia, ma dialogare con essa.
Ne parla il giornalista, esperto di AI, Francesco Pungitore nella sua nuova puntata di “Talk” in onda sul suo canale YouTube.
L’intelligenza artificiale non è più un tool tra tanti – è l’infrastruttura invisibile che ridefinisce ogni settore.
E mentre il World Economic Forum stima che l’AI creerà 97 milioni di nuovi posti di lavoro, c’è una verità spiazzante: le skill richieste non saranno di programmazione, ma di buon utilizzo.
Perché senza questa alfabetizzazione, rischiamo di diventare analfabeti funzionali del XXI secolo.
Non si tratta di sostituire l’uomo con la macchina, ma di capire che l’AI è ormai il collaboratore silenzioso in ogni processo. Prendiamo due professionisti: un architetto che usa MidJourney per migliorare i suoi progetti in ore invece che settimane, e un copywriter che moltiplica la sua produttività con ChatGPT, dedicando tempo alla strategia invece che alla stesura.
In un mercato iper-competitivo, il loro potenziale esplode.
Secondo McKinsey, entro il 2030, il 70% delle aziende integrerà strumenti di AI generativa nei flussi di lavoro. Ma il vero gap non è tecnologico – è culturale. Saper formulare prompt efficaci, interpretare dati addestrati da modelli, o persino identificare i bias degli algoritmi: queste saranno le soft skill del futuro, più decisive di una conoscenza passiva dell’inglese.
Cosa succede per chi ignora l’AI? Professionisti bloccati in loop di inefficienza: segretarie che perdono giorni in ricerche manuali, insegnanti che non sfruttano i tutor virtuali per personalizzare le lezioni, imprenditori che analizzano i dati ancora con Excel.
Il risultato?
Rischi di obsolescenza entro 5 anni.
La corsa all’AI non è neutra. Genera un divario tra chi ha accesso alla formazione e chi no. In paesi come l’India, il governo ha lanciato programmi come FutureSkills Prime per riqualificare 500k lavoratori entro il 2025. In Europa, invece, solo il 12% delle PMI forma i dipendenti sull’AI (dati Eurostat).
Il rischio è un’apartheid professionale: da una parte, una élite di “traduttori” uomo-macchina, dall’altra, una massa di lavoratori intrappolati in ruoli low-tech, sostituibili o peggio – irrilevanti. E qui entra in gioco l’etica: governi e aziende devono investire in corsi accessibili (non solo per ingegneri!), mentre i singoli devono abbracciare una mentalità da lifelong learning.
L’AI non premia i tecnocrati, ma chi sa farsi domande giuste: Quale problema posso risolvere con questo strumento? Come posso integrare l’automazione senza disumanizzare il mio lavoro?.
La competenza chiave non è scrivere algoritmi, ma governarli. Come disse Yuval Noah Harari: “I dati sono il nuovo petrolio, ma solo chi sa raffinarlo avrà potere”.
Il messaggio è chiaro: l’AI non è un treno da prendere o perdere. È un oceano in cui navigare. E per non affondare, serve imparare a nuotare -subito.
Tra i mestieri minacciati dall’ascesa dell’intelligenza artificiale – spiega Francesco Pungitore – quello dell’operatore di call center e del servizio clienti è un candidato quasi scontato, ma non per questo meno emblematico.
Perché proprio questo settore? La risposta sta in una combinazione letale: costi elevati, processi ripetitivi e una tecnologia, quella del natural language processing (NLP), che avanza a ritmi esponenziali. Secondo uno studio di Gartner, entro il 2026, il 30% delle interazioni con i clienti avverrà tramite macchine, non esseri umani. E il settore dei call center, con il suo esercito di operatori spesso sottopagati e stressati, è terreno fertile per questa rivoluzione.
Non stiamo parlando di un futuro lontano.
Oggi, aziende come Bank of America utilizzano Erica, un assistente virtuale che gestisce milioni di richieste mensili su saldi, bonifici e frodi, con una precisione superiore al 95%.
Amazon ha ridotto del 70% il ricorso a operatori umani per le richieste di reso grazie a un sistema di AI che analizza storie d’acquisto e fornisce soluzioni in tempo reale.
Ma è nei dettagli che si coglie la svolta: piattaforme come Zendesk Answer Bot integrano analisi predittiva per anticipare problemi prima che il cliente scriva, mentre startup come Replika hanno sviluppato chatbot che simulano empatia, adattandosi al tono emotivo dell’utente.
Persino le lamentele complesse, un tempo dominio esclusivo degli operatori esperti, sono gestite da tool come Sentiment Analyzer di Google Cloud, che categorizza frustrazione, urgenza o soddisfazione, indirizzando le richieste al canale appropriato – umano o artificiale che sia.
La scomparsa dei call center tradizionali è un sintomo di una trasformazione sistemica. L’AI non elimina semplicemente lavori: ridefinisce il concetto stesso di “servizio”.
Da un lato, le aziende tagliano costi (fino al 30% secondo McKinsey) e aumentano l’efficienza; dall’altro, i clienti ottengono risposte immediate, 24/7, senza code o errori umani.
Ma il vero nodo è socioeconomico: milioni di persone, soprattutto in paesi come India o Filippine, dove il settore dei call center è un pilastro occupazionale, rischiano di trovarsi senza alternative.
E mentre alcuni parlano di “ricollocazione” verso ruoli più specializzati (come supervisori di AI o analisti di dati), la realtà è che la transizione richiederà politiche di formazione aggressive e una ridefinizione del welfare.
L’AI nei servizi clienti non è una distopia, ma neppure una fiaba.
È uno strumento potentissimo che, se governato con etica, può liberare risorse umane da compiti meccanici, spingendoci verso lavori più creativi o strategici.
Ma perché questo avvenga, serve un patto tra aziende, governi e società: investire in educazione digitale, tassare i profitti dell’automazione per finanziare corsi di riqualificazione, e soprattutto, smettere di trattare l’AI come una semplice scorciatoia per il profitto.
Il call center che scompare è solo l’inizio.
La domanda vera che pone Pungitore è: cosa vogliamo costruire al suo posto?