LETTERE A TITO: LA BADOLATO DI ROSY AUDINO DA PAESE IN VENDITA E BORGO DELL’ACCOGLIENZA A SLOW VILLAGE
Una cronaca emozionante di un borgo abbandonato in fase di rinascita >> questo il titolo del lavoro che qui l’Autrice, tramite noi, intende gentilmente partecipare ai nostri lettori
di Domenico LANCIANO (www.costajonicaweb.it)
BADOLATO (CZ) – 8 NOVEMBRE 2023 – Caro Tito, prima della vicenda di “Badolato paese in vendita in Calabria” (biennio 1986-88) pare che gli unici studi su questo nostro paese jonico della provincia di Catanzaro siano stati fatti, come tesi di laurea, soltanto attorno al 1940 dall’allora maestro elementare Nicola Caporale (all’Università degli Studi di Messina) e da me nel 1977 all’Università degli Studi di Roma (oggi La Sapienza o Roma 1).
Dopo il “paese in vendita” e, in particolare, con l’accoglienza ai profughi curdi della nave Ararat, l’interesse per questo nostro borgo è aumentato enormemente e tante sono le relazioni, le inchieste giornalistiche multimediali, le tesi scolastiche ed universitarie che si sono succedute. Ultima in ordine di tempo è la tesina realizzata da Rosy Audino per una esercitazione assegnatale per il master in “Comunicazione della scienza” al San Raffaele di Milano (insegnamento “long form”). << Badolato, da paese in vendita a slow village.
Una cronaca emozionante di un borgo abbandonato in fase di rinascita >> questo il titolo del lavoro che qui l’Autrice, tramite noi, intende gentilmente partecipare ai nostri lettori.
1 – ROSY AUDINO
Padre di Badolato (CZ) e madre di Nardo di Pace (VV), Rosy Audino è nata in Soverato il 05 maggio 1992. Da dieci anni vive a Milano dove si è laureata in Scienze filosofiche e dove è docente nelle scuole. Attualmente è alle prese con un “master di primo livello” in << Comunicazione della Scienza e della Salute”.
Non a caso è giornalista il docente che Le ha affidato il compito di fare la tesina che qui stiamo presentando.
Rosy intende diventare giornalista-pubblicista iscritta all’Ordine della Lombardia. Cosa che Le auguriamo avvenga dopo la prevista trafila.
Pure così, siamo sicuri che vorrà dare un valido contributo alla migliore conoscenza di Badolato e di tutta la Calabria che hanno bisogno di giovani come Lei, anche se vivono altrove ma sentono il valore delle proprie origini personali e familiari.
2 – UN GRANDE PATRIMONIO SEMI-DISPERSO
Saranno sicuramente parecchie migliaia gli scritti e i servizi radio-televisivi su Badolato dal 07 ottobre 1986, da quando cioè è iniziata la “riscossa” di Badolato contro lo spopolamento e per la propria rinascita.
Per come mi è stato possibile, ho cercato di raccogliere quanta più documentazione possibile già quando ero bibliotecario comunale incaricato.
Ma poi l’essere stato costretto ad andare in esilio il primo novembre 1988 (dopo notevoli traversie locali, soprattutto istituzionali) non mi ha permesso più di essere puntuale in tale raccolta.
So che qualcosa ha “La Radice” di Badolato, associazione che continua ad essere molto utile a studenti, giornalisti e studiosi per i loro lavori su questo borgo simbolo della lotta contro l’impoverimento demografico-territoriale ma anche culturale e di civiltà. Nel 1996 lo stesso allora periodico trimestrale (diretto dal prof. Vincenzo Squillacioti) ha realizzato uno speciale molto accurato e prezioso con l’indicazione di tutta la documentazione concernente la vicenda (anche mediatica) del “paese in vendita”.
Qualcos’altro dovrebbero avere coloro che hanno vissuto l’epopea del “paese solidale” tra il 1997 in poi (primo tra tutti l’allora sindaco Gerardo Mannello e la dirigente del CIR Calabria, Daniela Trapasso). Parecchia documentazione è in mano di Antonio Femia, il nostro “maratoneta” più premiato e significativo nella podistica.
Spero poi che Guerino Nisticò raccolga la documentazione di questi ultimi decenni, specialmente quella inerente a “Badolato slow village” di cui è primo protagonista.
Così come spero che i promotori delle molteplici iniziative non disperdano la documentazione che li riguarda.
Sta di fatto, però, che molto è stato lasciato al caso o allo spontaneismo delle persone, mentre le Istituzioni (che storicamente si sono dimostrate allergiche quando non contrarie alla cultura) non hanno fatto nulla o quasi di stabile e di significativo, amministrazione dopo amministrazione comunale, per dotare di strutture di memoria attiva questo paese ricco di tradizioni, scrittori ed artisti vari.
Non hanno capito che la “memoria attiva” è assai utile pure a fini socio-economici e turistici così da contribuire alla ricchezza (non soltanto etica-spirituale) della comunità.
Paradossalmente, manca un utile e lungimirante raccolta e gestione della propria Storia proprio in tempi in cui i nuovi mezzi tecnologici agevolano moltissimo tale necessario ed utile esercizio sistematico.
Un vero peccato!…
Una grossa lacuna che si ripercuote poi nella vita sociale, più carente rispetto ad altri comuni calabresi e persino viciniori.
Senza solide strutture della memoria ne duole una più accurata e sentita “identità” senza la quale i cittadini sono in forte difficoltà nell’orientarsi nella propria storia sociale.
3 – SALUTISSIMI
Caro Tito, mi rincresce assai, toccando il tasto della Cultura locale, ripetere sempre le stesse cose, quasi come una dolorosa litania … però potrebbe risultare alquanto “scandaloso” (a mio parere) che una comunità come quella di Badolato (molto attiva lungo i secoli sul piano socio-culturale) continui a impoverirsi di strutture capaci di rappresentarla, pur in presenza di un attivismo ancora esistente ma senza il supporto di una sede pubblica documentaria, utile alle presenti e alle future generazioni.
Infatti, Rosy Audino non ha potuto, perché inesistente, recarsi presso una “Biblioteca o un archivio comunale” per effettuare le ricerche; ma è stata costretta a rivolgersi alla disponibilità di singole persone o associazioni per poter avere le informazioni che cercava al fine di redigere questa sua relazione.
Stesso pellegrinaggio hanno dovuto affrontare tanti altri ricercatori e sarà così per quelli che verranno in un futuro prossimo o remoto a Badolato per sapere e per capire.
Che fine farà fra non molto tempo la “memoria collettiva” una volta passate le generazioni che hanno vissuto gli eventi?…
Facebook e tutti gli altri “social” non bastano affatto a lasciare traccia di memoria collettiva.
Non basta persino “la Radice” e tutte le sue edizioni che pur sono notevoli.
Ci vuole qualcosa di più e di più sistematico per raccontare le epopee badolatesi antiche e nuove.
Una Biblioteca ed un Archivio storico comunale risponderebbero a tale esigenza, se però gestiti da una o più persone che aiutino ed organizzino la memoria collettiva, il suo arricchimento e la sua valorizzazione.
Spopolamento o desertificazione non è, infatti, soltanto la perdita dei residenti ma anche la dissipazione della memoria e dell’identità necessarie per potersi dire “siamo ancora un popolo”.
Non c’è più nemmeno un meritorio sito web come << www.gilbotulino.it >> che annotava quotidianamente il vissuto della nostra comunità e i badolatesi devono essere ospitati da organi di stampa internet di altri paesi del territorio, come ad esempio << www.soveratoweb.com >> oppure << www.preserreedintorni.it >> di Squillace o << www.ilreventino.it >> di Soveria Mannelli o, più in generale, da altri siti web disposti ad accogliere i comunicati-stampa emessi da alcuni volenterosi di Badolato, me compreso.
Dov’è finito l’orgoglio badolatese?….
Inoltre, ti ricordo che nessuno ha voluto sostituirmi nella corrispondenza giornalistica locale al diffusissimo quotidiano “Gazzetta del Sud” da quando (il primo novembre 1988) sono stato costretto a lasciare Badolato per l’esilio molisano.
Né Radio Pulsar (nata negli anni settanta dal lodevole volontariato giovanile di Pasquale Rudi ed alcuni altri) è stata supportata affinché potesse potenziarsi ed essere così maggiormente utile e rappresentativa per Badolato e tutto il territorio, come hanno fatto altre realtà.
Insomma, le utili iniziative socio-culturali di spessore nascono, promettono bene, ma poi si dissolvono nell’indifferenza quasi generale, non soltanto istituzionale.
Badolato, credimi, avrebbe avuto le potenzialità pure per realizzare una discreta emittente televisiva, come hanno dimostrato altre realtà più o meno simili.
Caro Tito, sperando che a Badolato, prima o poi, possano riunirsi gli “Stati Generali della Cultura” (cosa che avevo tentato di realizzare nel dicembre 1975 con l’Università Popolare Badolatese) per darsi un’organizzazione ed una strategia più utile ed efficace, con un’unica e lungimirante regìa, ti saluto e ti ringrazio per la pubblicazione di questa “Lettera n. 496” in attesa della 497 già pronta.
Ringrazio assai assai pure Rosy Audino per aver voluto contribuire, anche attraverso la presente tesina, alla migliore e maggiore conoscenza e diffusione della vita e della memoria badolatese.
E passiamo a leggerla, cercando di fare un utile passaparola.
Alla prossima e buona settimana di vita e di lavoro a te e a tutti! Infine, mi corre l’obbligo di evidenziare il fatto che questa “Lettera” era già pronta da spedire fin da lunedì 25 settembre 2023 ore 05.24 ma, per vari motivi, ne è stato posticipato l’invio.
Me ne scuso con Rosy Audino e con chi ci segue.
Cordialità e buona lettura!
ITER-City, sabato 04 novembre 2023 – Festa delle Forze Armate e dell’Unità d’Italia – Da 56 anni (dal settembre 1967) il mio motto di Wita è “Fecondare in questo infinito il metro del mio deserto” (con Amore).
BADOLATO, DA PAESE IN VENDITA A SLOW VILLAGE. UNA CRONACA EMOZIONANTE DI UN BORGO ABBANDONATO IN FASE DI RINASCITA
di Rosy AUDINO – agosto 2023
Badolato è un borgo medievale situato sulla costa jonica calabrese, a 45 chilometri dal capoluogo Catanzaro.
Le sue antiche abitazioni, che si ammassano sulla sommità di una collina affacciata sul mare e protetta dalle montagne delle pre Serre, portano con sé la memoria millenaria di questa terra.
Esplorare le strette viuzze di questo luogo è un’esperienza avvolgente, perché il tempo sembra che si sia fermato. Si avverte quasi l’eco delle grida degli abitanti durante le invasioni turche: “allarme, allarme, la campana sona, li turchi su sbarcati alla marina!”
Oppure ci si ritrova a immaginare i valorosi abitanti che combattevano durante la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571) quando si narra che il feudatario di Badolato, Gaspare Toraldo, fu il primo a issare la bandiera cristiana su una nave ottomana (ed è per questo che ogni anno il 7 ottobre si celebra ancora la “Festa della Vittoria”).
Ma ciò che balza immediatamente all’occhio sono i tipici colori della macchia mediterranea.
Le pale di fico d’india che in estate si tingono di arancione, viola e verde, fioriscono fra le spezie di rosmarino e anice che crescono selvatiche anche in luoghi insoliti.
I pomodori, che poi verranno lasciati essiccare al sole, colorano di rosso gli orti sistemati intorno ai ruderi. Il vento trasporta gli odori della vegetazione spontanea della montagna fino ai portoni di casa, dove si mescolano con il profumo della passata di pomodoro e del basilico fresco.
Quando rientro per le vacanze estive, percorrendo la strada che dalla marina porta su in paese, spengo il motore dell’auto e mi concedo una pausa accanto ad un albero di fico.
Fra le fronde rugose e dal profumo intenso, si nascondono i frutti, che si mimetizzano con la chioma dell’albero perché dello stesso colore delle foglie.
Mi allungo per raccoglierne un paio, li divido in due e ne assaporo la polpa che, con la sua dolcezza, invade la mia bocca.
Mentre sento le cicale frinire sino allo sfinimento, vedo le colline assetate e gli uccelli disegnare forme disarmoniche nel cielo, mi godo il privilegio di gustare la frutta raccolta direttamente dall’albero. In quell’istante, la pace avvolge ogni cosa, lontana da qualsiasi rumore di macchine della città e senza nemmeno l’ombra di un palazzo a oscurare la vista del mare all’orizzonte.
Al solo pensiero della frutta inscatolata dei supermercati mi passa la fame.
Quante migliaia di chilometri avrà percorso per raggiungere gli scaffali? Quanto inquinamento ha causato durante il trasporto e la produzione? È risaputo che le coltivazioni e l’allevamento intensivo sono tra le principali fonti di inquinamento. Allora, mi domando perché far percorrere tutti questi chilometri alla frutta quando queste terre, e tante altre aree rurali abbandonate, potrebbero produrne a volontà?
Ogni mattina, Annunziata, la donna più anziana del borgo, si dirige verso il suo orto, immergendosi nella lentezza della vita rurale. Tra piante rigogliose, raccoglie con cura i frutti offerti generosamente dalla natura.
Nel suo cesto, chiamato “u gistùni”, si accumulano delizie come succulente cipolle, nespole e pesche che rendono l’estate ancora più dolce; melanzane, peperoni e fichi abbondanti sugli alberi fino a settembre. Con forza, posa il cesto carico sulla testa e intraprende il cammino verso casa.
Lì, Annunziata iniziò a raccontarmi la sua vita, una storia lunga quasi un secolo, indissolubilmente legata al suo paese.
Mi ritrovai a vagare tra i ricordi della sua infanzia: dai campi i contadini, scalzi e grondanti dal sudore, intonavano canti tramandati da chissà quale epoca; i galantuomini passeggiavano per le botteghe del paese, dove i tamarri, i contadini, potevano accedervi solo in loro assenza. E poi le vie piene di gente, chi ha fame, chi ingiuria, chi si fa il segno della croce. Erano gli anni ’50 e nel paese c’erano quasi 5.000 persone. “Figlia,” mi dice, “qua c’era una ricchezza.
Quando ero piccola, i campi erano pieni di coltivazioni: grano, zucche, castagne, ulivi e pesche. Ogni stagione portava il suo raccolto, e noi, contadini, con le sole mani e la zappa, lavoravamo senza sosta dal sorgere del sole al tramonto. “Alzavo la testa solo quando il sole iniziava a calare, e con la mano a proteggermi gli occhi dal rosso accecante del cielo di sera, e l’altra sul fianco per sorreggermi la schiena indolenzita, mi asciugavo l’ultima goccia di sudore.
Questo lavoro fruttava molto visto che vendevamo quintali e quintali di prodotti ai forestieri di Napoli, Catania e Bari”. “La Radice”, rivista nata nel 1994 per preservare la memoria storica del borgo, racconta che nel 1975 a Catania, ancora sui mercati, comparve un cartello con la scritta “pesche di Badolato”.
Questo prodotto, tanto pregiato quanto abbondante, raggiungeva i mercati di tutta Italia, viaggiando su carri merci ferroviari o su camion che percorrevano tortuose strade, dato che all’epoca le autostrade non c’erano ancora.
La fertilità di queste terre era principalmente attribuibile ai due fiumi, il Vodà e il Gallipari, che attraversavano il villaggio e permettevano ai contadini di coltivare i terreni. Un tempo, Annunziata e gli altri utilizzavano un antico sistema chiamato “gebbia” per portare l’acqua al loro orto.
Questo sistema, di origine araba, prevedeva la costruzione di vasche o serbatoi in muratura che venivano collegati ai fiumi tramite condotti. In questi serbatoi raccoglievano l’acqua che veniva successivamente utilizzata per irrigare i campi coltivati.
Annunziata mi indica con il dito il torrente Vodà, il luogo dove un tempo attingeva l’acqua, ma dove oggi rimane soltanto una sagoma sul terreno. Improvvisamente i solchi sul suo viso, scavati dal tempo, vennero inondati da un fiume di lacrime.
Era il 17 ottobre del 1951, dopo quaranta giorni incessanti di pioggia, il fiume della Provvidenza ruppe le sue sponde, trascinando con sé alberi, attrezzi agricoli, e persino letti, mentre le persone cercavano disperatamente un rifugio sicuro.
Il cuore di Annunziata batteva così forte da sembrarle uscire dal petto, tanto era lo spavento. Suo marito, Francesco, le porse la mano e le disse con fermezza: “È ora di scappare”. Annunziata non vuole lasciare la sua casa, dopo tanti sacrifici per averla, vuole morire lì piuttosto che sopravvivere al suo cedimento. “I muri ci crollano addosso, scappiamo Annunziata”, urla Francesco.
In un attimo, si ritrovarono per strada, immersi in una folla in preda al panico e alla disperazione. La strada familiare era diventata irriconoscibile, la gente si muoveva in tutte le direzioni, chiedendo aiuto urlando: “Il paese sta affondando!”. Poi, improvvisamente, il rintocco di una campana si levò nell’aria.
È la campana della Madonna della Provvidenza. Il tempo di chiedere chi avesse avuto il coraggio di scendere fin laggiù, che la pioggia sembrava essersi improvvisamente placata.
Nonostante la condizione allarmante, alcuni abitanti del paese, infatti, misero a repentaglio la propria vita per salvare la statua della Madonna, che rischiava di essere portava via dal fiume insieme alla chiesa. Percorrendo una strada ripidissima inzuppata di acqua e di fango, riscesero ai piedi del villaggio.
Quando arrivarono, la chiesa era già allagata, ma corsero comunque a recuperare la scultura dall’altare e prima di risalire suonarono le campane.
Al primo rintocco il miracolo era già avvenuto: la statua era salva e nonostante l’alluvione avesse portato via le case della maggior parte degli abitanti, questi riuscirono a scappare prima che crollassero (la cronaca riporta la morte di un solo abitante).
Le alluvioni degli anni ’50 (1951, ’53, ’59) hanno colpito duramente l’agricoltura locale, distruggendo più di 600 ettari di terra e danneggiando i canali (u cundùttu) che i contadini avevano costruito con cura e duro lavoro per l’irrigazione dei loro terreni.
Come conseguenza di questa catastrofe, è nata Badolato Marina nel 24 marzo del 1952, quando l’allora capo del governo, Alcide De Gasperi, venne in mattinata a consegnare ufficialmente le chiavi delle nuove abitazioni.
Alcuni residenti del borgo si stabilirono a Badolato Marina, mentre coloro che persero la terra e, di conseguenza, il loro lavoro, furono costretti ad emigrare.
La cronaca e la leggenda vogliono che De Gasperi invitasse gli abitanti dei territori colpiti dall’alluvione, a studiare le lingue straniere e a cercare lavoro altrove, in Svizzera, in Germania, nelle città del Nord Italia, in Canada, in Australia. “Fate le valigie e andatevene” si dice che furono le parole che De Gasperi aveva rivolto al popolo italiano, e non solo badolatese.
Sul piazzale, che dolcemente si inclina verso il mare, trovo rifugio all’ombra di un albero di fico.
Qui, posso concedermi un momento di pausa e riflessione, specialmente quando, nel tardo pomeriggio d’estate, la vegetazione gioca con la luce del sole. La mente mi riporta indietro nel tempo, a quei giorni in cui i contadini percorrevano chilometri alla ricerca di un po’ d’acqua, perché fino al ’51 l’acqua potabile non arrivava ancora alle case; oppure quando si improvvisavano ingegneri costruendo condotti attraverso le colline per irrigare i campi e poter sopravvivere.
Quanto sudore per un po’ d’acqua! Mi tornano in mente le parole di Annunziata riguardo all’alluvione e riecheggia il grido di disperazione degli abitanti di questa zona, quando i torrenti, fonte di vita, si trasformavano in minacciosi mostri capaci di distruggere case e speranze. Oggi più che mai, a causa del cambiamento climatico, si verificano fenomeni di siccità o di eccessive precipitazioni.
Durante l’estate, può capitare di aprire il rubinetto e che non esca nemmeno una goccia d’acqua; o di vedere le colline ingiallite dalla paglia secca, dove un tempo prosperavano coltivazioni di frutta e verdura. Ma non sono lontani nemmeno i ricordi di frane, esondazioni che si verificano puntualmente alla prima pioggia intensa.
La Calabria è ricca di torrenti, che spesso, straripando, causano la distruzione di terre e la morte di persone.
E se quei torrenti fossero stati arginati?
Se fosse stata attuata una politica preventiva mirata all’identificazione dei rischi idrogeologici?
Forse, quei torrenti avrebbero potuto trasformarsi in una preziosa risorsa per il territorio, piuttosto che in una fonte di sciagura e disperazione, spingendo le persone a emigrare per la paura di essere inghiottite dalla terra con la prima pioggia, e causando l’abbandono dei campi, in balia della progressiva avanzata della desertificazione, che oggi compromette la metà del territorio calabrese.
L’alluvione fu il colpo di grazia che portò all’emigrazione di massa ma questo processo ebbe inizio nelle campagne di Badolato molto tempo prima. Qui i contadini vivevano in condizioni di estrema povertà e schiavi dei latifondisti.
I proprietari terrieri affittavano la terra ai contadini, condividendo il raccolto: due terzi andavano al padrone, uno agli affittuari.
L’affitto doveva essere pagato anche in caso di cattiva stagione, mettendo spesso i contadini nella posizione di dover vendere le proprie case per saldare i debiti. Annunziata, in passato, viveva con i suoi quattro fratelli e sua madre in un piccolo casolare di pochi metri quadrati.
Della guerra non si ricorda nulla, tranne che la fame. “Un giorno restammo con una piccola quantità di farina ma senza sale non potevamo preparare il pane. Le botteghe del paese erano chiuse e chissà quando avrebbero riaperto. Dalla fame ci ruggiva lo stomaco, non avevamo altra scelta che scendere verso la marina.
I ciottoli lungo la strada e le erbacce puntigliose sfregavano i nostri piedi che ormai a furia di camminare scalzi avevano fatto il callo.
Il mare all’orizzonte era l’unica via di fuga in mezzo quei sentieri tortuosi; 30 minuti a scendere e 30 a salire; quanta strada per un pezzo di pane!
A casa facemmo bollire l’acqua di mare e con il sale ottenuto, preparammo una pagnotta di pane, che dividemmo in parti uguali fra tutti i familiari”. In quella situazione di fame, miseria, disoccupazione e disperazione, i più fortunati partirono per le Americhe, per cercare un guadagno, tornare a casa e comprare un pezzo di terra, emancipandosi dai padroni e finalmente riscattarsi.
Nel corso del XX secolo, questo sistema feudale che favoriva l’arricchimento del barone a spese dei braccianti continuò a esistere.
Tuttavia, non tutti avevano l’opportunità di partire: alcuni erano bloccati dalla paura di chissà quale malaugurata sciagura potesse capitargli in quelle terre sconosciute, altri erano bloccati al paese perché non riuscivano ad ottenere il visto per l’espatrio, mentre altri non se ne volevano andare. I contadini di Badolato, esausti di questa situazione, svilupparono una coscienza collettiva che li spinse a unirsi e organizzare occupazioni delle terre e scioperi vari. Uno fra i più memorabili fu quello delle raccoglitrici di olive, che con lo slogan “pane e lavoro e allivi a mitati” (pane, lavoro e olive a metà), chiedevano lavoro e progresso.
La riforma agraria venne attuata con un provvedimento del parlamento italiano nel 1950, attraverso la legge stralcio n. 841, la quale propose la distribuzione delle terre ai braccianti agricoli. In tal modo, i braccianti divennero piccoli imprenditori, liberandosi dalla dipendenza dai latifondisti. A Badolato, tuttavia, i proprietari terrieri opposero una strenua resistenza a questo processo poiché non volevano rinunciare ai loro privilegi. Non ricevendo alcun aiuto dal governo centrale di Roma, i contadini decisero di intraprendere uno sciopero.
Questa volta, però, lo sciopero era diverso, era “a rovescio”. Il 13 ottobre del 1950, i braccianti e i disoccupati del paese iniziarono autonomamente la costruzione di un tratto di strada che avrebbe collegato Badolato a Brognaturo, primo lotto di un collegamento fra lo Jonio, le Serre e il Tirreno. Questa nuova strada avrebbe sostituito le vecchie e tortuose mulattiere e avrebbe portato prosperità a tutto il paese, soprattutto a coloro che non avevano nulla. Una volta completata la strada, avrebbero richiesto i finanziamenti allo stato.
Ecco perché si definiva uno “sciopero a rovescio”: invece di incrociare le braccia, si misero al lavoro, un diritto che per tanto tempo era stato loro negato.
Tuttavia, questo sciopero non portò all’esito desiderato, poiché intervenne il prefetto, furono incarcerati tredici manifestanti con l’accusa di sobillare le masse e la strada non venne mai ultimata.
La riforma agraria fallì e iniziò una massiccia emigrazione dovuta alla fame. Alcuni partivano per la Svizzera, altri per la Germania, e altri ancora per il Nord Italia. Alcuni andarono via per sempre avendo trovato altrove una nuova casa, altri investivano nel paese natio i soldi guadagnati, acquistando un pezzo di terreno e costruendo la casa per tutti i figli.
Grazie ai sacrifici dei loro genitori e nonni, i figli e nipoti di quella generazione hanno potuto emigrare verso grandi città, dove hanno avuto la possibilità di studiare e inseguire quell’ideale di progresso che a Badolato non si era riusciti a realizzare.
Da allora la fuga è diventata una condizione antropologica per i calabresi e, oggi più che mai questa regione sta vivendo un vero e proprio spopolamento.
Il 7 ottobre del 1987, Domenico Lanciano, allora bibliotecario comunale di Badolato, pubblicò un articolo sul quotidiano “il Tempo” di Roma dal titolo: “Badolato, paese in vendita” che ebbe un’eco internazionale; sullo stesso New York Times (12 febbraio 1988) venne dedicata l’intera quarta pagina a questo caso (He tried to sell his town).
E poi, troupe, giornalisti, interviste, lo slogan fece il giro dell’Italia provocando l’interesse di alcuni forestieri che ne sposarono la causa.
La sua preoccupazione riguardo alla possibile perdita del paese causato dallo spopolamento, lo spinse a lanciare un allarme.
Questo allarme ebbe il merito di evidenziare un problema che coinvolgeva l’intera Europa. All’epoca, ben 12.000 centri storici rischiavano di scomparire nel vecchio continente.
Oggi, purtroppo, la situazione non è migliorata, poiché sono diventati 15.000 i borghi spopolati in Europa e oltre 5.000 solo in Italia.
Il rischio di questo fenomeno che dagli anni ‘60 diventa inesorabile, nella previsione di Lanciano avrebbe comportato la scomparsa di un’identità culturale europea che è custodita proprio in questi luoghi.
Badolato è noto per le sue 15 chiese, alcune delle quali risalenti all’epoca bizantina e altre costruite in tempi successivi. La chiesa basiliana di Santa Maria della Sanità, dell’VIII secolo, continua a svolgere un ruolo importante con la celebrazione delle processioni, come documentato nella foto. Le ricorrenze religiose sono eventi amati che attraggono migliaia di turisti, soprattutto durante il periodo natalizio e le processioni pasquali. Tuttavia, preoccupava il degrado e l’abbandono di alcune chiese che richiedevano urgentemente la necessità di una maggiore cura e preservazione di questo patrimonio.
A Badolato, così come in molti altri borghi italiani ed europei, la storia c’è stata, ma spesso appare lontana e quasi inafferrabile, lasciando tracce soltanto nei ricordi dei locali.
Proprio per questo motivo, Lanciano temeva che una volta persa la memoria degli anziani, di questo luogo sarebbe rimasto solo un fantasma del passato.
E come un fantasma dal passato, dopo dieci anni dall’articolo di Lanciano, nella notte tra il 26 e il 27 dicembre 1997, sbarcarono sulle coste calabresi tra i paesi di Santa Caterina e Guardavalle ben 900 profughi, a bordo dell’Ararat, una barca proveniente dalla Turchia, con a bordo in maggioranza curdi.
Stavolta, però, non si trattava di un’invasione come al tempo dei turchi, ma di disperati in cerca della terra promessa. Nessuno, tuttavia, si assunse la responsabilità di accoglierli; Badolato, invece, aprì le sue porte e le sue case.
Con l’arrivo dei curdi, s’intravedeva finalmente la possibilità di far rinascere il villaggio e di sfidare il destino di abbandono.
I profughi, infatti, rappresentavano una preziosa forza lavoro, ciò di cui Badolato aveva disperatamente bisogno dato che la maggior parte dei giovani era emigrata altrove e in paese erano rimasti solo gli anziani.
Con l’aiuto dell’associazione Pro Badolato, furono aperti ristoranti e botteghe dove lavoravano i curdi, si organizzarono corsi di formazione e momenti di socialità. L’accoglienza riuscì in modo straordinario, tanto che nel corso degli anni di permanenza dei curdi, si sviluppò un linguaggio ibrido, il “kurdolatese”, un mix di dialetto calabrese e curdo. Daniela Trapasso, all’epoca studentessa fuori sede, si trovava a Badolato per le vacanze di Natale quando avvenne lo sbarco dei profughi dell’Ararat; oggi è la direttrice del CIR-Calabria.
Nel corso degli anni, si è dedicata con passione alla causa dei migranti, soccorrendo e accogliendo decine e decine di profughi giunti sulla costa calabrese. “Al cimitero di Badolato è sepolto un bambino,” mi racconta Daniela. “Kiol era arrivato a Locri, qualche anno dopo Ararat.
Quando fu soccorso, venne subito portato in terapia intensiva a causa dell’ingestione di molta acqua che lo aveva portato in ipotermia.
Essendo io la direttrice del CIR, mi occupai personalmente del bambino e di sua madre, recandomi ogni giorno in ospedale a far loro visita. Purtroppo, nonostante tutti gli sforzi, il bambino morì dopo poco tempo, suscitando in noi grande tristezza.”
“Feci il possibile per far riunire la famiglia del piccolo,” continua Daniela. “Con il nostro aiuto, il padre, che si trovava in un centro per profughi in Puglia, poté raggiungere Badolato per il funerale del figlio. Fu un momento commovente per tutti i badolatesi, che si riunirono per dare l’ultimo saluto al piccolo arrivato dal mare.” Nonostante l’impegno di Daniela e dell’organizzazione a cui apparteneva, per molti dei rifugiati giunti con l’Ararat arrivò il momento di lasciare Badolato.
Desideravano raggiungere l’Europa “vera”, cercavano lavoro e sentivano che qui non lo potevano trovare; perché qui anche se non ci sono le bombe non c’è lavoro proprio come nel loro paese.
Daniela mi mostra un oggetto a cui è molto affezionata perché le ricordava una storia per lei talmente potente che le faceva venire un nodo alla gola ogni volta che provava a parlarmene: “Sultana prima di partire per la Germania, mi aprì le mani e mi porse la sua fede nunziale, dicendo che doveva essere mia.
Non potevo accettare, era un gesto troppo importante, ma lei ci teneva.” Probabilmente era un gesto di gratitudine per tutto l’aiuto che lei e i suoi nove figli avevano ricevuto e, soprattutto, la promessa di non dimenticare.
Ancora oggi, dopo oltre 30 anni dagli eventi dell’Ararat, Daniela è in contatto con molti di quei profughi. Molti di loro hanno trovato realizzazione in Europa, soprattutto in Germania, che ospita la più grande comunità curda del continente.
Daniela è consapevole che integrare un popolo migrante in un luogo segnato da tante difficoltà, come un borgo spopolato in Calabria, è un compito estremamente complesso, quasi utopico.
Nelle zone rurali italiane ed europee, molti rifugiati rimasti spesso finiscono sfruttati nei campi agricoli, impegnandosi a raccogliere pomodori, arance o olive per pochi euro all’ora.
Questo fenomeno è talmente diffuso nel continente, tanto che qualcuno arriva a sostenere che le braccia dei migranti tengano in piedi il settore agricolo.
Daniela, invece, ancora oggi, gli anni in cui si preferisce far morire in mare esseri umani piuttosto che farli arrivare a casa nostra, continua a soccorrere e occuparsi dell’accoglienza dei profughi, offrendo loro gli strumenti per ricominciare da dove le bombe hanno interrotto le loro vite.
Li aiuta ad imparare la lingua, facendo tutto il possibile per permettere loro di costruirsi un futuro in Italia e in Europa, per sfuggire alla fame e alla disperazione, e soprattutto per riconquistare la libertà.
Sebbene il progetto volto a creare posti di lavoro per i curdi, mirante a trasformare l’arrivo dei migranti in una risorsa per il paese, non abbia ottenuto il successo sperato per ovvi motivi, Badolato rimane un modello di accoglienza che fa scuola a tutta Europa.
Proprio per questo motivo, la storia di Ararat ha catturato l’interesse di politici, giornalisti, scrittori, fotografi e intellettuali, i quali hanno proiettato i riflettori su questo piccolo paese, attirando individui entusiasti ad abbracciarne la causa.
Alcuni dei nuovi arrivati hanno acquistato e restaurato case, inizialmente un totale di 20, che altrimenti sarebbero rimaste in rovina.
In seguito a questo sviluppo, ha preso vita l’iniziativa chiamata “Badolato paese albergo”.
L’idea di base è quella di un albergo diffuso, dove le persone possono acquistare a prezzi accessibili case dismesse e ristrutturarle per offrire alloggio o alloggiare.
Questa iniziativa presenta somiglianze con il concetto attuale dei borghi a 1 euro, anche se Badolato ha scelto di non partecipare a quest’ultima dato che già da molti anni ha avviato l’attività dell’acquisto e nel restauro delle abitazioni, un processo che ha contribuito a non far cadere nell’oblio il paese.
Oggi, infatti, sono 300 gli alloggi per turisti e il prezzo accessibile delle case, il paesaggio straordinario continuano ad attirare molti acquirenti da tutto il mondo.
Nonostante l’inevitabile fenomeno dello spopolamento, Badolato come nelle vicende narrate precedentemente, continua a resistere. Negli ultimi anni, infatti, guidata da Guerino Nisticò, ha preso vita un’iniziativa denominata “Badolato Slow Village”.
Questo progetto mira a ravvivare il borgo promuovendo stili di vita sostenibili e attrattivi per un turismo responsabile, e sta dimostrando di avere successo grazie alla collaborazione di tutte le persone che credono in questa visione.
L’obiettivo è quello di preservare luoghi incontaminati e lontani dall’urbanizzazione e di promuovere un legame armonioso con la terra, ancorato alle tradizioni locali. Questi luoghi abbandonati possono rivitalizzarsi solo promuovendo lo stile di vita mediterraneo che in passato lo ha caratterizzato.
A Badolato le piazze antiche da sempre piene di vita ma che a causa dello spopolamento rischiavano di svuotarsi, ora tornano ad essere luoghi di incontro e di importanti manifestazioni culturali e religiose che portano migliaia di presenze ogni anno; terreni una volta ricchi di coltivazioni che a causa dello spopolamento sono incolti ora rinascono grazie a coltivazioni biologiche e tecniche agricole tradizionali, portate avanti con passione da giovani locali e stranieri.
Ci sono diversi esempi di questo nuovo movimento volto a valorizzare la terra. Cris e Mario, fondatori di Badolato Permaculture, dopo aver girato il mondo hanno scelto di piantare radici qui e di realizzare il loro progetto di rigenerazione del suolo; Andrea ed Elisa, una coppia che ha fatto della campagna il luogo dove far crescere i propri figli.
Katarina e suo marito, quindici anni fa dall’America hanno acquistato una campagna abbandonata dove poter vivere secondo uno stile di vita mediterraneo; turismo lento all’insegna della scoperta del luogo e delle sue tradizioni, che ha incentivato la ristrutturazione di alcune chiese e palazzi storici, che a causa dello spopolamento stavano andando in rovina; e poi, smart working, rifugio per gli artisti, Badolato per la sua bellezza e per il suo stile di vita mediterraneo attrae persone di ogni età e proveniente da ogni parte del mondo che per alcuni periodi medio-lunghi, decidono di soggiornare qui.
Tuttavia, questa strada verso il riscatto non è priva di sfide, soprattutto nelle regioni meridionali e ancor di più, nella provincia di Catanzaro.
Qui, l’arretratezza del sistema e l’assenza di incentivi da parte dello Stato rappresentano grossi ostacoli per chiunque voglia investire o provare a cambiare le cose.
In un racconto di Guerino, emergono anni di sforzi per sensibilizzare il comune sull’importanza di investire sui trasporti, per esempio, in navette, affinché il trasporto sia garantito a tutti e il borgo sia reso sicuro, specialmente durante il periodo estivo.
Questo sforzo mira anche a incoraggiare le persone ad arrivare fin qui, poiché sappiamo bene che questi borghi non sono agevolmente raggiungibili e la viabilità rappresenta il primo passo per avviare veramente un paese. Eppure, ancora nei giorni di festa, quando il borgo ospita migliaia di turisti, l’accesso al paese diventa oggetto di discussioni che spesso però, dopo la polemica, non porta a nulla.
A livello regionale le cose si fanno ancora più complesse; infatti, la Calabria risulta a tratti irraggiungibile in alcuni periodi dell’anno anche dagli italiani stessi visti i prezzi elevati dei voli aerei o i rischi in cui potrebbero incorrere casomai si trovassero a percorrere la statale 106, talmente pericolosa che viene chiamata la statale della morte.
Nonostante tutte queste difficoltà, Badolato sta dimostrando che per questi luoghi abbandonati esiste un potenziale di rinascita.
Sebbene possa risultare improbabile ritornare alla popolazione di 5000 abitanti degli anni ’50, Badolato ci dimostra che, attraverso questa nuova visione, è possibile affrontare la problematica sollevata da Domenico Lanciano negli anni ‘80: la perdita di quei gioielli culturali europei che sono i borghi.
E così, Badolato si erge a simbolo di speranza, un esempio di come un piccolo borgo possa sfidare le avversità e riaffermare la propria identità attraverso una nuova prospettiva.
Ma perché è così importante rivitalizzare questi borghi? Prima di tutto perché qui è custodita l’identità culturale europea con le sue tradizioni e la cultura millenaria. Perdere questi luoghi vorrebbe dire perdere un importante patrimonio storico e culturale.
La rivitalizzazione delle aree rurali non si limita, però, al recupero del passato, ma proietta lo sguardo verso il futuro.
Con l’attuale aumento delle sfide climatiche e ambientali, queste zone possono diventare centri di innovazione e sperimentazione per pratiche sostenibili
. La promozione dell’agricoltura locale, dell’agroecologia e di modelli di vita e produzione più rispettosi dell’ambiente può contribuire in modo significativo alla mitigazione dell’inquinamento, alla conservazione delle risorse naturali e all’adozione di pratiche che supportano un ecosistema sano.
Inoltre, mentre le grandi città affrontano problemi come l’urbanizzazione e l’insostenibilità, le aree rurali possono offrire una qualità di vita migliore, con spazi aperti, aria pulita e un ritmo più tranquillo, invece che essere abbandonati.
I borghi, infatti, potrebbero attirare giovani e famiglie che cercano un’alternativa ai centri urbani fin troppo affollati, contribuendo a una distribuzione più equa della popolazione e delle opportunità.
La riduzione dell’emigrazione verso le città da parte dei residenti locali e l’attrazione di nuovi abitanti in cerca di uno stile di vita lento potrebbero rendere fattibile questo ambizioso progetto. Chiaramente c’è bisogno dell’appoggio delle istituzioni altrimenti questo progetto rischia di non decollare.
Il modello Badolato rappresenta un autentico spostamento di prospettiva rispetto alle politiche internazionali che sembrano non prestare adeguata attenzione agli impatti ambientali disastrosi causati dal nostro attuale modello di sviluppo e ai danni che tale modello sta recando alle aree rurali d’Europa che da fonte di ricchezza sono diventate un peso.
È il 22 agosto il paese è in fermento, per i prossimi cinque giorni ci sarà festa. Dal primo pomeriggio per le vie del paese si sente cantare e suonare musica popolare, mentre le signore iniziano a preparare zeppole, peperoni e patate (pìpi e patati), frittelle ai fiori di zucca (pìttarerhi), e ad arrostire le salsicce per farcire i panini, lo street food tipico di queste zone.
Passo dal catojo, un luogo sacro, perché oltre ad avere la temperatura ottimale per la conservazione dei salumi, formaggi, olio e vino, questi luoghi sono anche simbolo dell’ospitalità e del legame dei badolatesi per il proprio paese.
Il catojo Caminiti dal 1983 accoglie amici, turisti, artisti, intellettuali, lo stesso Win Wenders quando venne a girare il suo corto su Riace fece tappa qui.
I catoji si popolano specialmente di sera, l’ora perfetta per aprire le damigiane di vino e offrirlo agli amici venuti in visita.
Si beve, si canta e si discute sui massimi sistemi del mondo. Sotto il cielo stellato di notte e il chiaro di luna argentato, il silenzio assoluto del borgo circonda queste oasi di convivialità. Non serve google maps per raggiungere i catoji, che spesso sono nascosti fra una viuzza e uno scorcio di mare.
Basta farsi guidare dalle voci di gente divertita che non aspetta altro che accogliere il prossimo arrivato. Da chissà quale parte di mondo, che parla chissà quale lingua e che magari non si rivedrà mai più.
Questi luoghi sono sacri proprio perché nel tempo hanno contribuito a mantenere vivo il paese, grazie all’ospitalità e all’organizzazione di eventi come “Ciak, si beve” (rassegna cinematografica) da Turi e i suoi figli, che negli anni non solo ha permesso ai giovani del posto di avere un luogo di riferimento per passare il tempo libero, ma ha attirato artisti, giornalisti e intellettuali da tutto il mondo che ogni anno, specialmente nel periodo estivo, si ritrovano al borgo.
È straordinario come un paese considerato spopolato sia così pieno di vita. Da san Nicola, percorro tutto corso Umberto una strada così pendente che devo fermarmi almeno un paio di volte prima di arrivare in piazza Castello, dove si terrà la festa.
Protetta dalle mura del paese, le chiacchere degli amici del catojo sono ormai lontane mentre si fa sempre più vivo l’eco dei canti dei contadini che lavoravano nei campi, delle processioni religiose che percorrevano le strade, e delle voci di coloro che hanno cercato di riscattare la propria terra nonostante le difficoltà.
Nascosto dietro la montagna, il sole ha dipinto il cielo con sfumature di rosa e arancio, conferendo all’intero paesaggio un’atmosfera malinconica.
In questo crepuscolo di un giorno d’agosto, il vento leggero porta con sé gli aromi della natura circostante, che si insinuano tra i sentieri e i vicoli per poi giungere fino a me. In questa quiete, l’istante si fa eterno, un ricordo prezioso da custodire: domani, con l’alba, partirò, ma porterò con me questi attimi.